Babel Food by Franco La Cecla

Babel Food by Franco La Cecla

autore:Franco, La Cecla [La Cecla, Franco]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Antropologia culturale, Intersezioni
ISBN: 9788815326515
editore: Societa editrice il Mulino Spa
pubblicato: 2016-09-14T22:00:00+00:00


1. Il «made in Italy» prima del «made in Italy»

Se c’è qualcosa con cui l’Italia si presenta al mondo qualche decennio dopo l’Unità è proprio questo aspetto da «paese», un mondo in cui la dimensione pubblica è invasa da quella privata: le piante davanti casa, i panni stesi ad asciugare nei cortili di Mulberry Street, la frutta venduta sui carretti o esposta davanti ai negozi, la tendenza all’estroversione più che alla difesa, alla scena più che alla privacy. La stessa privacy suona assurda in una cultura dove il privato è in qualche modo già pubblico, nel senso che rielabora e riconduce il fuori, annettendolo a un dimorare a partire dal quale la gente vive.

È per questo che il Lower East Side di Manhattan nella zona italiana[1] apparirà come un mercato all’aperto, come il regno di una vita all’esterno che si esprime con i caratteri forti di una sceneggiata in cui la miseria stessa viene messa in piazza. Se non si capisce questo forte carattere domestico dell’italianità, non si capirà nemmeno come mai esso diventerà il suo marchio di fabbrica, che consentirà lo straordinario successo – di cui alla citazione d’inizio – degli italiani all’estero. Di questa «mondializzazione dell’immagine italiana» la pasta sarà il logo, la bandiera, ma anche una geniale invenzione economica.

A differenza di altri gruppi di forte emigrazione, come gli irlandesi, tenuti insieme dal cattolicesimo, o gli ebrei, che sono compattati dall’endogamia religiosa, la religione degli italiani all’estero diventa la domesticità, la casa. Così la descrive Simone Cinotto[2], uno storico che ha lavorato sulla Harlem – il quartiere a Nord di Manhattan – italiana agli inizi del Novecento, scavando negli archivi di Leonard Covello che aveva raccolto nel quartiere un’innumerevole quantità di testimonianze dirette. Ad Harlem nel 1930, su un totale di 233 mila abitanti, gli italiani erano 80 mila, gli afroamericani 29 mila, gli ebrei 28 mila, i portoricani 14 mila, i tedeschi 11 mila.

Tra gli immigrati, l’equazione cibo e famiglia – la nozione tutta italiana che «la famiglia mangia insieme» – fece circolare i valori distintivi legati alla domesticità con cui identificare fortemente la diaspora italiana in privato e in pubblico.

È anche a partire dalla preponderanza della domesticità che si capisce la dimensione stessa della delinquenza italiana all’estero. La casa diventa il marchio pubblico, ludibrio, gloria o astuzia di vendere il maledettamente provinciale, il piccolo mondo, come universale. Il successo italiano, che si produrrà dopo, a fatica, il made in Italy, che altro è se non questa capacità di vendere la «modestia» e il circolo allargato della famiglia come casa tout court, il saper «fare casa» che tutti gli altri possono imitare? Sarà la faccia mostrata da Martin Scorsese o le facce di Al Pacino e di Robert De Niro, come archetipi di un’italianità fatta di durezza e buoni sentimenti, di miseria di strada e di accoglienza familiare. Lo ricorda in una divertente intervista filmata da Martin Scorsese[3] proprio sua madre, Catherine, alla cui tavola sono state girate molte delle scene dei film del figlio. La casa è il luogo in cui si rinsaldano i legami che permettono un andirivieni tra il dentro e il fuori.



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